28 luglio 2007

Ierofania del varco

Le immagini di apertura o di passaggio in genere, fin dai livelli culturali più arcaici sono state interpretate come possibilità di trascendenza. In Genesi, 28.12-19 a Giacobbe apparve in sogno una scala che portava al cielo, sentì la voce di Dio provenire dall’alto, e svegliatosi esclamò: “Qui è la casa di Dio, qui è la porta dei cieli”, prese quindi la pietra su cui poggiava il capo dormendo e decise di fondare su di essa un luogo sacro chiamato Betel, cioè “Casa di Dio”. L’apparizione del passaggio, rappresentata, in questo caso, dalla scala che conduce al varco che consente la comunicazione con il cielo, con l’Onnipotente, è una delle immagini–simbolo dell’apertura che consente il contatto tra mondi e modi di essere completamente diversi tra di loro.
La fenditura nella roccia, il varco nella montagna, nascosti da vegetazione rigogliosa, che lasciano intravedere l’antro o il cunicolo, rappresentano una delle prime e più potenti ierofanie del “passaggio”. L’interruzione dell’omogeneità dello spazio è, per l’uomo arcaico, densa di significati. Tutti i luoghi che presentano un particolare diverso dall’omogeneità circostante sono luoghi unici: “Spesso non vi è neppure bisogno di una vera e propria teofania o ierofania: un segno qualsiasi è sufficiente a rivelare la sacralità di un luogo”. ( M. Eliade, Il sacro e il profano”, Torino 2006)
Penetrare nel varco, entrare nella caverna, è un atto sacro di conquista/conoscenza di uno spazio “altro”, diverso da quello che l’uomo frequenta, conosce ed utilizza in maniera funzionale alle sue esigenze di sopravvivenza: è l’atto simbolico effettuato in uno spazio simbolico, probabile origine dei successivi usi rituali.
Lo studio di Leroi-Gourhan (A.Leroi-Gourhan, Le religioni della preistoria, Milano 1993) sulla disposizione ricorrente dei dipinti all’interno delle caverne mostra che già nel paleolitico esisteva una visione simbolica dello spazio, di cui l’uomo prese possesso gradatamente: 30.000 anni fa – nell’Aurignaziano- le prime raffigurazioni di animali, il c.d. stile I, sono state riscontrate solo su massi all’imbocco delle caverne, le figure dello stile II compaiono nella zona d’ingresso di qualche grotta, i recessi più profondi sono una conquista dello stile IV, da cui inizierà poi l’abbandono della pratica della raffigurazione parietale. La decorazione nelle zone prossime all’ingresso è comunque una costante che accompagna l’arte parietale dai suoi esordi fino alla scomparsa.

24 luglio 2007

Fuali-ni

L’evento più probabile oltre la soglia è quello di non conoscere e di non essere conosciuti, ma il più pericoloso è quello di non essere ri-conosciuti, il pericolo, cioè, che una volta passati in una nuova realtà si perda lo status precedente, si diventi altro, non più riconoscibile dalla propria comunità. Definizione vaga, ma assolutamente illuminante, quella data dai Gourmantché di Gobnangou nel Burkina Faso, e riportata da M. Cartry (Du village à la brousse ou le retour de la question, in M. Izard, P. Smith, La function simbolique, Paris 1979), per descrivere l’espressione fuali. Il fuali è qualcosa di alieno, di forestiero che ha sede nello spazio, ma non ha collocazione geografica, né fisicità: il fuali “è laggiù, è lontano, sempre lontano”, ma il fatto che sia lontano non vuol dire che non possa raggiungere il villaggio. La radice “fua” da cui “fuali” deriva è opposta in certi contesti alla radice “do”, che provvede da base alla parola villaggio, “dogu”. Il campo semantico coperto dalla radice “fua” include la nozione di uno spazio che ha effetto sul corpo umano in modo specifico. Se si resta per troppo tempo “Fuali-ni”, cioè in terreno selvatico, si rischia di essere “svuotati”, “pressati”, “appiattiti”, “vicini al punto di evaporazione”, si rischia cioè di cambiare, di essere modificati. Il terreno selvatico, amorfo e privo di struttura che è fuori del villaggio rappresenta il non essere assoluto. A contatto con esso si può perdere la propria sostanza “ontica”, si può essere dissolti nel caos.
“Di notte il fuali avanza nel villaggio fino al punto segnato dai recinti delle abitazioni, a volte penetra negli interstizi tra queste[…]. Fuali implica qualcosa di indistinto, l’assenza di contorni differenziati, l’eliminazione dei confini. Così, di notte, ogni spazio al di fuori delle case tende a trasformarsi in terreno selvatico e il modo in cui appare nella viva luce lunare, quando le cose sembrano tornare ad uno stato indistinto è, ugualmente, terreno selvatico”.

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20 luglio 2007

Diario Bizantino I (Cristina Campo)

La soglia, qui, non è tra mondo e mondo
né tra anima e corpo,
è il taglio vivente ed efficace
più affilato della duplice lama
che affonda
sino alla separazione
dell’anima veemente dal corpo delicato
– finché il nocciolo ben spiccato ruoti dentro la polpa –
e delle giunture degli ossi
e dei tendini dalle midolla:
la lama che discerne del cuore
le tremende intenzioni
le rapinose esitazioni

Due mondi – e io vengo dall’altro.

16 luglio 2007

Pe' vvede si una ne ll'anno nôvo che vviè, sposerà.

Regazze mie, er primo ggiorno de ll'anno nôvo, annate su la porta de casa, pijate una ciavatta, e bbutattela o su' ripiano der primo capo de le scale, oppuramente de fôra der portone.
Si la punta de la scarpa o dde la ciavatta, in der cascà che ffà pper ttèra, arimane arivortata verso la porta o er portone de casa che ssia, allora è segno che puro drento l'anno nôvo nu' sposate; ma ssi la punta de la ciavatta arimane vortata verso l'uscita, allora è ssegno che ddrento l'anno ve maritate certamente.
(Giggi Zanazzo - Usi, Costumi e Pregiudizi del popolo di Roma, 1907)

12 luglio 2007

Sforzinda

“…E cominceremo coll'aiuto del sommo Idio a edificare la nostra Sforzinda, proveduto prima a quelle cose che prima s'adoperano, come sono i ferramenti opportuni”

E 'l Signore allora disse: “Dimmi quando sarà.”

“Poiché infra otto dì, Signore, è buona costellazione e il buono punto comincia a regnare, credo che sarebbe bene che tutto l'ordine che s'ha a dare per mettere la prima pietra si desse.”…”Signore, l'ordine sarà questo: che essendo congregato nel luogo dove la prima pietrà s'arà a collocare, da uno certo luogo diputato il quale poco distante sarà, la vostra Signoria eleggerà otto uomini notabili secondo vi parrà, e arassi suoni e strumenti, e poi andremo al luogo detto per tutte le cose ordinate, e presentarle dinanzi alla vostra Signoria, essa poi insieme col pontefice e anche con vostri figliuoli e io con voi insieme colle cerimonie.”

“Tutte queste cose mi piacciono, ma io voglio intendere queste che cose elle sono.”

'Le cose sono queste le quali io ho ordinate: in prima si è una pietra di marmo dove è scritto gli anni Domini … e il nome della vostra Signoria e del sommo pontefice e così il mio, e una cassa di marmo… nella quale è dentro uno libro di bronzo, dove è fatto memoria di tutte le cose di questa nostra età e anche degli uomini degni da loro fatte… Èvi dentro ancora di piombo e di bronzo molte effigie d'uomini degni. Ho fatto ancora uno vaso di pietra pieno di miglio, di… grano, el coverchio del quale è il simulacro di Cloto e di Lachesis e Antroposso, sopra il quale non è scritto altro se none "vita e morte". Ho preparato ancora uno vaso di vetro pieno d'acqua, e uno pieno di vino, e uno pieno di latte, e uno pieno d'olio, e uno pieno di mele.'

(Antonio Averlino detto il Filerete, Trattato di architettura, a c. di A. M. Finoli, L. Grassi, Il Polifilo, Milano, 1972)

10 luglio 2007

da 'NELL'INSIDIA DELLA SOGLIA' - Y.Bonnefoy 1975

Urta,
Urta per sempre.
Nell'insidia della soglia.
Contro la porta, sigillata,
Contro la frase, vuota.
Nel ferro, ridestando
Solo queste parole, il ferro.
Nel linguaggio, nero.
In colui che è qui
Immobile, vegliando
Sul tavolo carico
Di bagliori, di segni.
E che tre volte
Viene chiamato, ma non si alza.

Nell’adunarsi, cui è mancato
Il celebrabile.

Nel grano deformato,
Nel vino prosciugato.

Nella mano che trattiene
Una mano assente.

Nella inutilità
Del rammemorare.

08 luglio 2007

CONVERSAZIONE CON UNA PIETRA Wislawa Szymborska (da “Sale” 1962)

Busso alla porta della pietra
- Sono io, fammi entrare.
Voglio venirti dentro,
dare un'occhiata,
respirarti come l'aria.

- Vattene - dice la pietra.
- Sono ermeticamente chiusa.
Anche fatte a pezzi
saremo chiuse ermeticamente.
Anche ridotte in polvere
non faremo entrare nessuno.

Busso alla porta della pietra.
- Sono io, fammi entrare.
Vengo per pura curiosità.
La vita è la sua unica occasione.
Vorrei girare per il tuo palazzo,
e visitare poi anche la foglia e la goccia d'acqua.
Ho poco tempo per farlo.
La mia mortalità dovrebbe commuoverti.

- Sono di pietra - dice la pietra
- E devo restare seria per forza.
Vattene via.
Non ho i muscoli per ridere.

Busso alla porta della pietra.
- Sono io, fammi entrare.
Dicono che in te ci sono grandi sale vuote,
mai viste, belle invano,
sorde, senza l'eco di alcun passo.
Ammetti che tu stessa ne sai poco.

- Sale grandi e vuote - dice la pietra
- Ma in esse non c'è spazio.
Belle, può darsi, ma al di là del gusto
dei tuoi poveri sensi.
Puoi conoscermi, però mai fino in fondo.
Con tutta la superficie mi rivolgo a te,
ma tutto il mio interno è girato altrove.

Busso alla porta della pietra
- Sono io, fammi entrare.
Non cerco in te un rifugio per l'eternità.
Non sono infelice.
Non sono senza casa.

Il mio mondo è degno di ritorno.
Entrerò e uscirò a mani vuote.
E come prova d'esserci davvero stata
porterò solo parole,
a cui nessuno presterà fede.

- Non entrerai - dice la pietra.-
Ti manca il senso del partecipare.
Nessun senso ti sostituirà quello del partecipare.
Anche una vista affilata fino all'onniveggenza
a nulla ti servirà senza il senso del partecipare.
Non entrerai, non hai che un senso di quel senso,
appena un germe, solo una parvenza.

Busso alla porta della pietra.
- Sono io, fammi entrare.
Non posso attendere duemila secoli
per entrare sotto il tuo tetto.

- Se non mi credi - dice la pietra-
rivolgiti alla foglia, dirà la stessa cosa.
Chiedi a una goccia d'acqua, dirà come la foglia.
Chiedi infine a un capello della tua testa.
Scoppio dal ridere, d'una immensa risata
che non so far scoppiare.

Busso alla porta della pietra.
- Sono io, fammi entrare.

- Non ho porta - dice la pietra.

07 luglio 2007

My sweet rose - J.W. Waterhouse 1908

05 luglio 2007

Nanga Banù

Per ricostruire la narrazione della fondazione del villaggio di Bandiagara nel Mali, in occasione della celebrazione del rituale che deve aver luogo ogni quaranta anni, e per poter riprodurre esattamente i singoli episodi della fondazione, gli anziani Dogon devono percorrere per anni l’altopiano alla ricerca dei frammenti depositati nella memoria dei vecchi.
La narrazione dogon degli inizi, estremamente complessa per la quantità di eventi e di esseri che vi compaiono, è frammentata in una grande varietà di episodi e di versioni. Non esiste una narrazione univoca: neppure gli specialisti, tra i Dogon, sono oggi in grado di recitarla. Quel che conoscono e che possono ricostruire sono le porzioni legate ai rituali.
Il cacciatore Nanga Banù fu inviato a cercare un luogo propizio per stabilire il nuovo villaggio. Con l’atto simbolico di appendere la bisaccia alla biforcazione di un albero, Nanga Banù ritaglia un primo “luogo umano” nella natura selvatica. Il cacciatore è un iniziando, che ha il compito di esplorare lo spazio selvatico che avvolge come una nebulosa quello umano, e che è dominio di animali, delle presenze immateriali dei defunti, e degli Ogulu Belèm, “esseri dei luoghi vuoti”, nati per colpa di Ogò che, appropriatosi di un frammento della placenta-madre prima che la gestazione fosse compiuta alterando il tempo naturale, viene trasformato in Yurugù, la volpe pallida simbolo dell’opposizione alla linearità delle regole.
La creazione, che a causa della colpa di Ogò è “andata male”, cioè diversamente da quanto avrebbe voluto Ama per gli uomini -immortalità e assenza di malattie-, ha avuto come conseguenza l’opposizione fondamentale tra esseri umani, del mondo abitato, e esseri non umani, Ogulu Belèm, “esseri dei luoghi vuoti”. Invisibili alla maggior parte degli uomini, e dotati di caratteri terrificanti, perennemente in attesa, esigono offerte, sacrifici di sangue, preghiere e rituali collettivi a loro rivolti.
E non soddisfatti inviano mali.
A parte il deperimento dovuto alla vecchiaia, tutte le altre malattie sono “inviate” dai “signori dei luoghi vuoti” o incontrate frequentando, senza le necessarie precauzioni, lo spazio non umano, territorio pericoloso che appare però essere anche l’inevitabile luogo della conoscenza. È qui, infatti, nello spazio fuori dai limiti precisi del mondo geometrico e ordinato del villaggio, che l’iniziando deve inoltrarsi per poter stabilire forme di contatto con i suoi numi e penetrare le sue profondità, per acquisire il potere di persuaderli a concedergli la possibilità di appropriarsi di parte di quello spazio.
(Per approfondire l'argomento: B. Fiore e T. Russo, Linguaggio rituale e divinazione, in Forme di Vita - Rivista di filosofia, marzo 06, Edizioni Derive Approdi, Roma)

04 luglio 2007

Psyche entering Cupid’s garden - J. W. Waterhouse 1903