13 ottobre 2015







Bisogna chiudere i cicli.
Non per orgoglio, per incapacità o per superbia:
semplicemente perché quella determinata cosa esula ormai dalla tua vita.
Chiudi la porta, cambia musica, pulisci la casa, rimuovi la polvere.
Smetti di essere chi eri e trasformati in chi sei.
 

 Paulo Coelho, Lo Zahir, 2005 

30 novembre 2010

Porte chiuse!


04 ottobre 2010

"Cuccù!"


Le origini del fischietto sono molto antiche: flauti e fischietti ricavati da ossa lunghe di uccelli e mamiferi appositamente forate sono noti dal paleolitico superiore ed altrettanto noti sono i fischietti globulari ricavati da noccioli e gusci di frutti, di molluschi e dal cranio di uccelli.
In Italia la produzione di fischietti di terracotta tra Medioevo e Rinascimento è caratterizzata da un ricco repertorio iconografico che propone spesso figure zoomorfe. Molto diffusi sono i fischietti globulari a forma di uccello la cui coda costituisce il beccuccio, mentre la cavità del risonatore, oltre al foro dell’imboccatura, presenta spesso uno o due fori digitali per la modulazione del suono.
I fischietti globulari, insieme a quelli ad acqua, nei quali il gorgoglio provocato dall’aria soffiata all’interno della cavità riempita d’acqua emette una sonorità simile al verso degli uccelli, erano probabilmente utilizzati come richiamo da caccia e proprio per il suono emesso erano chiamati cucù, usignoli, rossignoli. Anche il repertorio iconografico attinge spesso al tema dei volatili, tema che in ambito folclorico assume un significato propiziatorio connesso alla primavera, stagione del canto di corteggiamento degli uccelli, alla fertilità, alla rinascita.
A Matera ancora oggi esiste una ricca produzione artistica di fischietti in terracotta, ad acqua e non, chiamati “frischitti” o “cuccù”, souvenirs molto ricercati che è possibile acquistare nelle tante botteghe sparse nei Sassi, dove si può assistere a tutte le fasi della lavorazione, dalla modellazione nella creta, alla cottura, alla coloritura. Gli artigiani raccontano volentieri la storia dei cucù, il loro valore scaramantico, che li voleva murati nella cappa del camino -vulnerabile punto di contatto con l'esterno- o posti sulle culle dei neonati non ancora battezzati per allontanare gli spiriti maligni. I figli maschi ne ricevevano uno in dono in tenera età come augurio di futura felicità. La principale occasione di acquisto era rappresentata dal giorno di Pasquetta o, nel mese di maggio, durante la festa della Madonna di Piacciano, quando i fornaciari portavano, nei luoghi più frequenatati in quei giorni, ceste traboccanti di fischietti variopinti, che avevano modellato e decorato utilizzando calce per il fondo e terre colorate per le rifiniture. Un’altra tradizione vuole il fischietto come pegno d'amore: regalato all'amata dal suo promesso sposo, il “Cuccù” misurava la grandezza della passione, più era decorato, con fiori, frutta ed altri uccellini, più grande e potente era la promessa d'amore.

P.S. I cuccù in foto sono stati realizzati dalla ceramista Maria Bruna Festa di Matera.

22 luglio 2010

Il cuore sul trullo


Dal sito http://www.puglianews.org/ l’interessantissimo articolo di Francesco Giannini sulla tecnica costruttiva dei trulli, riporta alcune interessanti informazioni sui simboli disegnati con la calce sui tetti, sul lato esposto ad est o di sopra dell’ingresso: “Ne sono stati individuati quasi 200 diversi tra di loro” e la loro funzione, dice Giannini, non è solo estetico-decorativa, ma ha una valenza apotropaica con riferimenti al mondo della religione, della magia e dell’astrologia:
“Tali elementi, come hanno dimostrato alcuni recenti studi, sono dovuti ai rapporti culturali e religiosi intercorsi tra l’Italia e l’Oriente nei primi anni del Cristianesimo. Identici simboli, presenti in ossari egizi e palestinesi e in catacombe romane costituiscono una conferma della loro origine palestinese o cristiano-giudaica o ellenistico-cristiana. Questi simboli, dalla primitiva origine pagana o giudaica, sono stati rielaborati successivamente in senso cristiano e approdano in Puglia attraverso l’arrivo di monaci ed eremiti provenienti dall’Oriente. La Puglia, infatti, ancora oggi è, ma è stata soprattutto in passato, un ponte tra l’Oriente e l’Occidente, terra di passaggio sia per i pellegrini che si recavano da Roma verso la Terrasanta che per i monaci diretti dall’Oriente verso Roma; basti pensare agli eremiti e monaci orientali e alle innumerevoli chiese rupestri presenti in Puglia”
Alcuni simboli, che vengono catalogati come primitivi, sembrerebbero collegati ai culti druidici che si celebravano nei boschi pugliesi e sulle Murge. Tra i segni magici presenti sui trulli rientrano quelli zodiacali, planetari e astrologici. Alcuni simboli religiosi richiamano esplicitamente la religione cristiana: il monogramma di Gesù, la Croce, che è il simbolo più ricorrente in differenti versioni, il cuore trafitto della Madonna, l’alfa e l’omega, il calice, i segni della Passione, un angelo, una spiga di grano, un grappolo d’uva, una stella. Sui trulli sono presenti anche animali e piante: cavallo, bue, gallo, aquila, serpente, il vaso di fiori, la spiga di grano, il giglio, l’albero -portatore di una enorme quantità di significati- con i rami rivolti verso l’alto o verso il basso, la pianta del trifoglio…
“Sarebbe opportuno -conclude Giannini- effettuare un censimento per conoscerne l’entità delle presenze di trulli nel nostro territorio e salvaguardarne l’integrità per consegnare alle generazioni future un bene architettonico e culturale che nel 1996 è stato dichiarato dall’UNESCO Patrimonio dell’umanità. Anche gli organi istituzionali, attraverso la Formazione Professionale negli anni scorsi hanno organizzato corsi per restauratori di trulli, visto che i vecchi trullari stavano per scomparire e, con loro, anche un mestiere che si perdeva nella notte dei tempi.”

05 giugno 2010

Oggetti mutanti

Un frequentissimo topos comune alla favola, al mito, all’immaginario onirico, al mondo della magia e del soprannaturale in genere, vede oggetti che mutando improvvisamente la loro funzione, trasformandosi cioè in altre cose, modificano il disegno di una trama, il tracciato di un sentiero. L’intricatissima rete delle cause e degli effetti cambia repentinamente consentendo quello che sembrava impossibile o impedendo inspiegabilmente l’accadere dell’ovvio.
Anelli, tappeti, lacrime, bastoni, pentolini, rocce, alberi, specchi, zucche con caratteristiche diverse da quelle connaturate, acquisito cioè il requisito della straordinarietà, diventano chiavi magiche che riescono a spalancare porte altrimenti inaccessibili…
Il fascino dell’oggetto mutante che riesce a diventare “altro” al momento giusto è un po’ quello del coltellino svizzero, della posata pieghevole, della trousse da trucco, del kit multifunzione in genere.
E’ anche il fascino dell’Iphone. Ad esempio il mio, qualche giorno fa si è improvvisamente trasformato in una macchina lomografica… ed un fenomeno fotografico che non conoscevo è entrato prepotentemente a far parte delle mie passioni…

26 aprile 2010

La Società del Sette


Nei pressi di Abbadia Isola, nei dintorni di Siena, il Montemaggio, tristemente noto per i suoi martiri, è al centro di una oscura vicenda che, sebbene si collochi tra l’inizio del secolo e la fine della seconda guerra mondiale, sembra essere una scheggia sfuggita all’inesorabile fluire del tempo… La testimonianza si deve al diario –per altro andato distrutto- di un non meglio identificato parroco locale che si dice sia impazzito dopo avere a lungo indagato sui fatti nel tentativo di impedirne lo svolgimento.
Molti siti in rete riportano lo stesso lungo e dettagliato brano che racconta di un “Grand'Uomo” che attraverso un potere occulto tenne in pugno la popolazione di Abbadia Isola barattando guarigioni miracolose e interventi sulla meteorologia con l’appartenenza incondizionata alla "setta" di cui era a capo insieme ad un piccolo gruppo di fidati collaboratori.
Il racconto parla di contadini miseri e creduloni che sembrano corrispondere più ad un topos di narrativa medievale che alla reale condizione della mezzadria toscana tra il 1900 ed il 1945 e mentre in un primo momento sembrerebbe non esserci traccia di fonti, citazioni, indagini o interviste condotte sul campo, cercando più attentamente si scopre invece che sul finire degli anni 80, Massimo Biliorsi nel suo “Al di là di Siena”, IFI 1988, ha cercato di ricostruire tutta la storia del misterioso santone, aiutato da persone del posto che ricordavano benissimo gli eventi.
“La setta aveva il nome di Società del Sette" -racconta Frustone utente del forum Natura Mediterraneo, citando Biliorsi- "dal nome del rituale che prevedeva il passaggio attraverso sette porte disseminate in un lungo percorso che iniziava poco fuori Pian del Lago per poi salire nelle selve del Montemaggio. Sei porte ci sono anche oggi, alcune veramente mal conservate…alcune guardano pascoli e boschi senza avere ne’ a destra ne’ a sinistra mura o muretti”.
Si trattava di varchi da attraversare, passaggi simbolici di un itinerario rituale che gli adepti percorrevano, cantando in processione, durante le notti di luna nuova, incappucciati e portando torce e candele, accompagnati da una donna gravida e tre coppie di adolescenti. Si dice che ogni porta recasse scritta, in uno strano alfabeto, l’indicazione per raggiungere quella successiva e via, via verso la settima, una sorta di “stargate”, il luogo che avrebbe condotto gli adepti alla “verità”.
Nei boschi del Montemaggio è possibile incontrare realmente sei delle sette porte citate, ma dopo la sesta il sentiero che le attraversa tutte sparisce, inquietante, nel nulla…

11 marzo 2010

Una piccola porta


Ricordavo di aver letto qualcosa a proposito di una piccola porta che in alcune chiese del Sud della Francia consentiva l’accesso ad una qualche categoria di persone. Ricordavo anche di aver visto sempre da quelle parti, o meglio nei Paesi Baschi, una strana acquasantiera accanto a quelle normali…
Chi passava sotto quella piccola porta? Chi si segnava attingendo l’acqua benedetta da una acquasantiera riservata? Come ben sapete l’analisi stratigrafica di un ricordo è enormemente facilitata dalla rete. Ebbene, dopo solo qualche minuto di tentativi, ecco materalizzarsi nella nebbia sagome furtive che si inchinano goffamente per passare sotto quelle porte troppo basse per consentire un accesso decoroso. Teste chine sotto l’onta di un cappello fregiato da un ridicolo nastro rosso spalle curve per tentare di nascondere a se stessi l’orrenda zampa d’anatra vermiglia attaccata alle vesti: i Cagots entrano in chiesa in silenzio, sono uomini, donne, bambini, si dispongono in silenzio in fondo alle navate laterali. Sono molti, costretti a subire il disprezzo e l’offesa, in nome di una discriminazione infondata che li vuole discendenti dai “Cani Goti” o dai Saraceni, costretti a preannunciare il loro arrivo suonando nacchere o castagnette come i lebbrosi, isolati dal resto della popolazione che li evita al punto tale da non avere descrizioni certe del loro aspetto fisico: “Erano alti, biondi e con gli occhi azzurri… ma no erano piccoli e scuri”…. “avevano mani e piedi palmati, emanavano un fetore insopportabile...”
In confronto al trattamento loro riservato, la condizione degli Ebrei era invidiabile. Vivevano ai margini della comunità, non avevano un nome, ma solo il prenome seguito dalla parola “Cagots”, potevano sposarsi solo tra di loro e quando morivano erano seppelliti in terra sconsacrata, sulle porte delle loro abitazioni spesso era scolpita una testa d’uomo, deforme, la stessa che si trovava sulle loro acquasantiere, che spesso però erano conche o trogoli di legno.

Vere demoni della soglia, le donne Cagots erano spesso ostetriche, mentre gli uomini lavoravano il legno e la pietra. Si dice infatti che fossero in origine una tribù di nomadi palestinesi “maestri della pietra”, dotati di poteri eccezionali, arrivati in Francia a seguito dei 9 Templari di ritorno dalla prima crociata capitanati da Jean De Payns ed in seguito trasferitisi nei Pirenei sotto la protezione dei Catari.
Una storia di soprusi e lotte, che dal 1360, epoca in cui già esistono notizie delle vessazioni cui erano sottoposti, arriva addirittura al 1844, quando, in barba all’uguaglianza e alla dignità restituite loro dalla Rivoluzione Francese, i Cagots erano ancora costretti, nella bassa Navarra, a subire umiliazioni e vessazioni. Molte comunità hanno cercato di cancellare l’onta di un passato tanto buio, scalpellando via le effigi da architravi e acquasantiere e murando, inutilmente, le piccole porte che sussurrano ancora la storia dei Cagots…


(La sitografia e la bibliografia sono vastissime, a me è parso molto interessante Ulysse Robert, I segni d'infamia nel Medioevo, a cura di Silvana Arcuti, Rubbettino 2000 )

14 febbraio 2010

Cineparaklausithyron

04 febbraio 2010

Paraklausithyron


Il tema della serenata davanti alla porta chiusa, o paraklausithyron, fu molto in voga nella poesia amorosa a partire da quella ellenistica o addirittura arcaica, ricordo un frammento di Anacreonte che diceva pressappoco così:
Ho mangiucchiato una briciola di focaccia
Ho tracannato un intero orcio di vino fino al fondo
Ed ora con la cetra, canto una serenata alla mia bimba.

E l’ exclusus amator di Asclepiade di Samo, ardente di passione sullo sfondo un paesaggio quasi romantico:

Lunga è la notte, è già inverno, s'inclina alle Pleiadi il cielo;
ed io molle di pioggia m'aggiro alle sue porte,
preso da brama per quella bugiarda;
chè Cipride inflisse in me feroce dardo di fuoco e non amore.

Ma è l’immortale comicità di
Plauto, nel Curculio, che riesce ad arricchire la scena di due personaggi inaspettati: due pigri chiavistelli sordi alle suppliche del povero innamorato che, pazzo d’amore, li implora come fossero esseri animati, di saltare via per lasciare che la porta della bella e crudele amata si apra.
Si tratta della nota “Serenata ai Pessuli” del
Curculio, atto I scena III, che traduco liberamente:

Pessuli, heus, pessuli, vos saluto lubens,
vos amo, vos volo, vos peto atque obsecro:
gerite amanti mihi morem, amoenissumi,
fite causa mea ludii barbari.
Sussilite, obsecro, et mittite istanc foras,
quae mihi misero amanti ebibit sanguinem.
Hoc vide, ut dormiunt pessuli pessumi,
nec mea gratia commovent se ocius!

Chiavistelli, o Chiavistelli, vi saluto festante,
vi amo, vi bramo, vi prego e vi supplico,
soccorrete al mio amore, o dolcissimi,
diventate per me saltellanti ballerini!
Saltate su, vi supplico, e fatela uscire dalla porta,
colei che a me, disperatamente innamorato, sta succhiando la vita!
Ma guardali come dormono, Chiavistelli Cattivelli,
non ci pensano proprio a smuoversi per me!

Dunque, altre “presenze” ad affollare il popoloso mondo della soglia….

05 gennaio 2010

For ever in delight


Il 3 maggio 1818 John Keats descrive in una lettera all’amico John Hamilton Reynolds una sua teoria sui differenti livello di pensiero a cui l’uomo avrebbe facoltà di accedere: soglie che liberamente gli individui possono decidere di oltrepassare o no, consentirebbero il passaggio da una sorta di mondo fanciullo, la Thoughtless Chamber, ad un ambiente dall’aspetto luminoso, la Chamber of Maiden-Thought, che si presenta come una sorta di stanza delle meraviglie, dove sarebbe davvero bello poter restare “for ever in delight”…


« I compare human life to a large Mansion of Many Apartments, two of which I can only describe, the doors the rest being as yet shut upon me - The first we step into we call the infant or Thoughtless Chamber, in which we remain as long as we do not think - We remain there a long while, and notwithstanding the doors of the second Chamber remain wide open, showing a bright appearance, we care not to hasten to it; but are at length imperceptibly impelled by awakening of the thinking principle - within us - we no sooner get into the second Chamber, which I shall call the Chamber of Maiden-Thought, than we become intoxicated with the light and the atmosphere, we see nothing but pleasant wonders, and think of delaying there for ever in delight. »

(John Keats, 3 maggio 1818)


« Io paragono la vita umana ad un vasto palazzo dalle molte stanze, delle quali solamente due posso descrivere, rimanendo le porte delle altre a me chiuse - La prima di cui varchiamo la soglia la chiamiamo la camera dei bambini, o la camera senza pensieri, in cui noi rimaniamo fino a che non pensiamo - Ci rimaniamo un lungo tratto, e nonostante la porta della seconda camera rimanga aperta mostrando un aspetto luminoso, non ci interessa affrettarci verso di essa; ma vi siamo impercettibilmente spinti una buona volta dal risvegliarsi del principio di pensiero - dentro di noi. Non appena entriamo nella seconda stanza, che chiamerò la stanza dei pensieri vergini, siamo pervasi dalla luce e dall'atmosfera, non vediamo nient'altro che piacevoli meraviglie, e pensiamo di attardarci lì per sempre estasiati. »

08 dicembre 2009

Porte sbarrate


di difficile navigazione, ma ricco di informazioni, riporta tra molte testimonianze folkloriche relative all’area siciliana, alcuni scongiuri contro il malocchio che recitati come preghiere la sera prima di coricarsi o subito dopo aver messo il catenaccio alla porta, avrebbero lo scopo di potenziare la difesa dell’ambiente domestico e delle persone che in esso vivono, aggiungendo alle garanzie offerte da mura e catenacci anche la protezione di figure sacre che poste simbolicamente in prossimità della porta, punto più vulnerabile della casa, farebbero sì che al suo interno non possano penetrare malefici operati da “mali persuni”.
In una di queste preghere-scongiuro, la madre rincuora così la figlia:
“Duormi, figlia, ed arriposa/ nun ti spagnari di nessuna cosa/ darrieri la porta mia/ cc’è lu mantu di Maria/ e lu vastuni di San Giseppi./ Cu’ avi a fari mali a mia/ nun pozza asciari né porta e mancu via.”
In un’altra versione è il bastone di San Simone ad agire, cavando gli occhi ai “mali persuni”:
“Chiuju ‘a porta mia cu lu mantu di Maria/Gran Signura Maria, cu ha a fari mali a mia/ ‘un pozza truvari né alica né valia/ San Simuni cu lu so’ vastuni cci scippa l’occhi a li mali persuni.”
C’è sicuramente una relazione stretta con l’uso romano di età arcaica di tenere in prossimità della porta, a protezione dagli spiriti malvagi, tre oggetti-feticcio: la scure, il pestello, e la scopa (vedi post del 18/11/2006) che nella continuità cristianizzata della pratica diventa il bastone del santo.
Mi chiedo se esista qualche rapporto con i bastoni che spesso sbarrano le porte delle cantine, dei pollai, delle piccole stalle, delle legnaie, nei paesi dell’Appennino centrale. La connotazione rituale di questa pratica è testimoniata dalla totale mancanza di una reale funzione difensiva: il bastone non impedisce, infatti, in alcuna maniera l’apertura della porta dall’esterno (può essere sfilato con estrema facilità), spesso viene solo appoggiato di traverso sulle ante accostate (alle maniglie o agli occhielli del lucchetto) non impedendo, quindi, l’accesso agli animali dall’esterno, né eventualmente la fuga di animali dall’interno, inoltre, come nel caso della foto –che ho scattato a Fossa, in Abruzzo- viene spesso collocato anche su porte di locali in stato di semi-abbandono ormai divenuti vere e proprie discariche.

16 novembre 2009

Tutto quello che puoi fare, o sognare di poter fare, incomincialo.


"Fino a che uno non si compromette, c’è esitazione, possibilità di tornare indietro e sempre inefficacia.
Rispetto a ogni atto di iniziativa (e creazione) c’è solo una verità elementare, l’ignoranza uccide innumerevoli idee e splendidi piani.
Nel momento in cui uno si compromette definitivamente, anche la provvidenza si muove. Ogni sorta di cose accade per aiutare, cose che altrimenti non sarebbero mai accadute.
Una corrente di eventi ha inizio dalla decisione, facendo sorgere a nostro favore ogni tipo di incidenti imprevedibili, incontri e assistenza materiale, che nessuno avrebbe sognato potessero venire in questo modo.
Tutto quello che puoi fare, o sognare di poter fare, incomincialo.
Il coraggio ha in sé genio, potere e magia. Incomincia adesso.’’
Wolfgang J. Goethe

E così ho oltrepassato un'altra soglia. Da oggi sono entrata nella terra dell'etnografia ed etnomuseologia italiana. Sarà una regione? Uno stato? Un continente? Speriamo non sia un'isola...



03 novembre 2009

Claude Levy-Strauss. 1908-2009

…il mestiere di etnologo mi ha insegnato progressivamente a pensare non in termini di decenni, e neppure di secoli, ma di millenni, anzi, di decine di millenni, dunque quando parlo di questo secolo penso che tra due o tremila anni non se ne saprà più nulla…Pensiamo a tante cose come importanti, ma se le collochiamo nel tempo scompaiono. Ciò non toglie che mi interessino.”

Claude Lévi-Strauss, 28 novembre 1908 – 30 ottobre 2009, Sagittario.

Tratto da Repubblica del 21 novembre 2008, “Un pomeriggio col professore”, di Bernardo Valli


30 ottobre 2009

Il punto zero delle porte


“Le porte appartengono al passato, benché nei concorsi di architettura ci devono essere ancora le porte di servizio.”
(Robert Musil, Porte e portoni, da Pagine postume pubblicate in vita, Einaudi 2004)
A dirlo era Robert Musil, nel1936.
Sicuramente non c’erano ancora i citofoni, tanto meno i videocitofoni, e probabilmente non c’erano ancora gli spioncini a lenti a consentire di vedere, non visti, la dimensione altra.
L’apertura delle porte con riconoscimento dell’impronta digitale non era riuscita a materializzarsi nemmeno nei sogni dei più fantasiosi individui dell’epoca… Musil non parlava della porta tagliafuoco, o della porta allarmata (orrendo neologismo), neppure di quella corrazzata … ma di una porta che “consiste in una cornice rettangolare di legno infissa nel muro alla quale è applicato un battente girevole”.
Ai nostri giorni quasi un oggetto d’antiquariato.
Battenti fatti “di noce o di quercia, come usava ancora poco tempo fa nelle case per bene” che, forse a causa di un karma negativo, degradano dalla loro funzione originaria di difendere e rappresentare la sacralità dello spazio domestico a quella di sportelli da dispensa dentro cucine trendy fotografate nei giornali di arredamento.
Di oggetti che perdono la loro funzione per assumerne un’altra, uscendo dalla quotidianità, dalle soffitte e poi, molto velocemente, anche dalla memoria ce ne sono una infinità…
Interessantissimo, a questo proposito, il progetto dell’IMC, istituto dei Musei Comunali di Sant’Arcangelo, Oggetti obsoleti del contemporaneo”, che raccoglie la memoria di oggetti che stanno per arrivare al loro “punto zero”, ancora presenti nel nostro quotidiano ma ormai non più utilizzati nella loro funzione originaria , “prendono vie diverse: dai musei ai collezionisti, sepolti in cantina o definitivamente dissolti nel tempo e solo ricordati”…

25 settembre 2009

Liminalità creativa


"La parola sarebbe stata all’inizio un simbolo magico che l'usura del tempo ha deprezzato. Il poeta avrebbe la missione di restituire alla parola, almeno parzialmente, la sua primitiva ed oggi nascosta virtù. Due doveri avrebbe ogni verso: comunicare un fatto preciso e toccarci fisicamente, come la vicinanza al mare." 
(J.L.Borges, Tutte le opere, vol.II, Mondadori, Milano 1985, p. 559)

Così Borges nel prologo della raccolta di poesie “La rosa profonda” che raccoglie testi scritti tra il 1972 e il 1975.
Sono presenti molti dei temi a lui cari: le maschere, la nostalgia della spada, le ombre tutelari, gli inventari e le enumerazioni, l'arbitrio del tempo umano, l'inesorabilità del destino, gli specchi, i miti, gli animali.
Sempre nel prologo Borges accenna al “processo” che guida la genesi delle sue opere, una interessante posizione di liminalità creativa: 

"Comincio con l'intravvedere una forma, una specie di isola remota, che sarà poi un racconto o una poesia . Vedo la fine e vedo l'inizio, ma non ciò che si trova in mezzo. Questo mi viene rivelato gradualmente, quando gli astri o il caso sono propizi. Più di una volta devo ripetere il cammino nella zona d'ombra". 
(J.L.Borges, Tutte le opere, vol.II, Mondadori, Milano 1985, p. 661)

Habla un busto de Jano (J. L. Borges, “La rosa profunda”, 1975)

Nadie abriere o cerrare alguna puerta
sin honrar la memoria del Bifronte,
que las preside. Abarco el horizonte
de inciertos mates y de tierra cierta.
Mis dos caras divisan el pasado
y el porvenir. Los veo y son iguales
los hierros, las discordias y los males
que Alguien pudo borrar y no ha borrado
ni borrará. Me faltan las dos manos
y soy de piedra inmóvil. No podría
precisar si contemplo una porfía
futura o la de ayeres hoy lejanos.
Veo mi ruina: la columna trunca
y las caras, que no se verán nunca.


Parla un busto di Giano (J. L. Borges, “La rosa profonda”, 1975)

Che nessuno apra o chiuda alcuna porta
Senza onorar la memoria del Bifronte,
Che le presiede. Abbraccio l’orizzonte
Dei mari incerti e della terra certa.
I miei due volti scorgono il passato
E il futuro. Li vedo e sono uguali
I ferri, le discordie e i molti mali
Che Chi poteva non ha mai annullato
Né annullerà. Mi mancano le mani
E sono pietra immobile. Non posso
Precisare se contemplo una lotta
Del futuro o degli ieri, oggi lontani.
Vedo la mia fine: la colonna tronca
E le facce, che giammai si vedranno.

(L'immagine è di Mercedes Varela, Cartel de la Exposicion: "Borges en la Biblioteca Nacional de Buenos Aires"

14 agosto 2009

Nella "camera chiara"....


Nelle prime pagine de "La Camera chiara" Roland Barthes definisce la fotografia come appartenente a "...quella classe di oggetti fatti di strati sottili di cui non è possibile separare i due foglietti senza distruggerli: il vetro e il paesaggio, e perchè no: il bene e il male, il desiderio e il suo oggetto...."
Più avanti scrive una nota su una foto scattata da Charles Clifford all'Alhambra di Granada nel 1854. Niente di monumentale, "Una vecchia casa, un portico in ombra, un tetto di tegole..." che se non fosse per quella "sbiadita decorazione araba" che si percepisce appena nella bifora e nell'ogiva dell'arco, potrebbe essere una vecchia casa di un borgo toscano o provenzale... Una fotografia antica che lo commuove "perchè, molto semplicemente, è là che vorrei vivere...io ho voglia di vivere là, in consonanza..."
Consonanza è un termine prettamente legato al mondo dei suoni, che qui, in un contesto che è invece incentrato sulle immagini, sul senso della vista, Barthes enfatizza con l'uso del corsivo, specificando poi che "tale consonanza non è mai soddisfatta dalla foto turistica".
Le fotografie di paesaggi, urbani o di campagna, devono essere "abitabili", suscitare in lui un "desiderio di abitazione", possedere una sonorità morbida e gradevole, che si diffonda da quegli "strati sottili" di cui sono fatte ad indicare che il varco è aperto alla realizzazione di un "desiderio di abitazione...fantasmatico" che "nasce da una sorta di veggenza che sembra portarmi avanti, verso un tempo utopico o riportarmi indietro, non so verso quale regione di me stesso: duplice movimento che Baudelaire ha cantato nell’ Invitation au voyage e nella Vie antérieure."
E' dunque una percezione estesa quella con cui Barthes coglie "l'essenza del paesaggio": ultra-grafia di luce e suono, premonizione e rammemorazione di "paesaggi prediletti" dove è come se fosse "sicuro di esserci già stato o di doverci andare".





15 luglio 2009

La porta di Lohapol


La città di Jodhpur, nel Rajasthan, fondata nel 1459 da Rao Jodha fu molto ricca grazie al commercio di oppio, legno di sandalo, datteri e rame. Il regno dei Rathore, cui apparteneva Rao Jodha, era anche chiamato Marwar, ovvero “Terra della Morte”, certo la Jodhpur attuale non conserva niente che ricordi la sua terribile fama, ma qualcosa di inquietante ancora c’è…
Il Meherangarh, tuttora gestito da maharaja di Jodhpur è una fortezza dalla formidabile struttura architettonica: l’accesso è consentito da ben sette porte, la Jayapol, costruita dal maharaja Man Singh nel 1806 dopo la vittoria riportata sugli eserciti di Jaipur e Bikaner, la Fatehpol, la Porta della Vittoria, eretta dal maharaja Ajit Singh per commemorare la sua vittoria sui Moghul. L’ultima porta è la Lohapol, la Porta di Ferro, accanto alla quale
, appena dopo l'entrata, si notano le impronte rosse di una trentina di piccole mani: ricordo del “sati” delle vedove del maharaja Man Singh, che si gettarono sulla sua pira funerea nel 1843, dicono le guide locali che nessuna di loro emise neppure un gemito.

L’onore di una fortezza del Rajasthan non era rappresentato soltanto dagli assedi a cui resisteva, ma anche dal numero di sati avvenute nel momento nelle sconfitte. Prima di immolarsi le donne lasciavano l’impronta delle loro mani sulle mura della fortezza, dopo averle immerse nell’hennè rosso: quello che ai nostri occhi appare come il triste ricordo di decine di sfortunate spose-bambine è, in realtà, il modo in cui l’ultima porta del Meherangarh proclamava la sua inviolabilità.

Il termine sanscrito sati indica la vedova che si immola sulla pira o sulla tomba del marito, la radice è la stessa di satya =verità o sentiero virtuoso. Sati, nipote di Brahma creatore dell’universo, è la prima consorte di Shiva che, adirata con il padre che aveva umiliato suo marito, si gettò nel fuoco pregando, fino alla morte.
Il rituale dell’autoimmolazione, la cui attestazione in India risale almeno al I secolo a.C., era assai diffuso e le impronte di mani, come quelle sulle mura del forte Jodhpur, indicavano dove le sati si sacrificavano dopo la morte in battaglia dei loro mariti.
I motivi profondi che sottendono al rituale sono ancora profondamente radicati in molte zone dell’India rurale e nel Rajasthan, attuale centro di culto della dea Sati Màtà. Dopo la proibizione inglese del 1829, la pratica del “suttee” cominciò a scomparire in tutta l’India, ma nel Rajasthan è continuata fino ad oggi in alcuni dei più remoti villaggi, dove ne sono stati registrati almeno 40 casi dalla proclamazione dell’indipendenza.
Nel 1987 il caso di Roop Kanwar, una studentessa universitaria diciottenne che si suicidò sulla pira del marito in abiti nuziali, scosse l'India con un duro dibattito. La ragazza aveva guidato il corteo funebre e si era seduta sulla pira con in grembo il capo del marito morto. La famiglia aveva acceso il fuoco di fronte a centinaia di spettatori e al termine aveva offerto alle ormai migliaia di presenti un banchetto in onore della nuova Sati Mata. Uno degli ultimi casi è avvenuto nel Maggio del 2005 in un villaggio dell' Uttar Pradesh. La donna aveva 70 anni e i figli assicurano di non essersi accorti di nulla. A Marzo dello stesso anno una folla immensa si era riunita nel distretto di Pali in Rajasthan dove si era sparsa la voce che un'altra donna stava per immolarsi sulla pira del marito. Dopo violenti scontri con le forze dell'ordine, la donna è stata arrestata.

15 giugno 2009

Larga è la foglia...


La nonna mi raccontava meravigliose favole, favole per me, giacché era della sua vita di bambina vissuta in collegio all’inizio del secolo che raccontava...ricordo alla perfezione le avventure, i particolari, i nomi, le atmosfere nella penombra della sua enorme stanza da letto, in un palazzo austero del centro di Roma, in certe sere d’estate che trascorrevo insieme a lei con la sensazione di vivere un’avventura esotica. Abituata ad un appartamento moderno arredato in puro stile svedese anni 60, percepivo quei soffitti altissimi, quei mobili imponenti, pieni di fiori, frutti e teste di leone come le quinte di un palcoscenico tra le quali comparivano dal buio improvvise figurette di bambine con polacchine e vestitini a quadri, colletti inamidati e capelli inanellati a rappresentare solo per me il racconto di quei capolavori di astuta ingenuità e di incosciente crudeltà di cui solo i bambini (le bambine…) sanno essere capaci.

Poi vinceva il sonno, le palpebre cominciavano a cedere, le immagini diventavano confuse…era il momento della “foglia”…lottavo con tutte le mie forze perché mia nonna non capisse che stavo sul punto di addormentarmi, perché non pronunciasse l’insesorabile …"Larga la foglia, stretta la via dite la vostra che ho detto la mia”

Quella “foglia larga” la odiavo con tutto il cuore. Ma poi che voleva dire? Improvvisamente vedevo le bimbette fin de siècle salutarmi con quella enorme foglia verde tra le mani, fare l’inchino e sgattaiolare ridendo dietro le quinte del mio teatro…"No, nonna non dirlo, continua a raccontare…” ma già lei mi dava la buonanotte e si allontanava nel buio…la misteriosa, enorme foglia aveva vinto ancora una volta…

Solo pochi giorni fa leggo in rete:“...si tratta di una trascrizione errata della parola soglia dovuta alla somiglianza tra la resa grafica in corsivo della s e quella della f…” e continuando a cercare noto anche che esiste una alternanza nel proverbio che a volte recita anche “Stretta è la foglia, larga la via…”

Incredibile!

Fin dall’infanzia una soglia disturbava i miei sonni….

05 giugno 2009

Soglie Templari. La Pieve di Sticciano


E' una chiesa del X secolo, situata in un borgo arroccato su un'altura della maremma toscana che guarda verso sud ovest la terra che degrada verso il mare. 

Invito a leggere l'interessante articolo di Claudia Cinquemani Dragoni. Riassumo qualche cenno sul portale.

Al centro dell'architrave è incisa una croce patente, di cui solo due bracci sono biforcuti. Il lato destro presenta subito accanto un Fiore della Vita.  E' una sorta di fiore del loto a sei petali. Lo si trova già in decorazioni egizie e nella civiltà di Ur, nella cultura Micenea, sui Calabash della Guinea, nell'antica Cina, tra i Celti, in monete ed altri oggetti etruschi e steli Fenicie, oltre che in altri esempi di scultura romanica. E' uno dei simboli più diffusi nelle chiese Templari. Tra queste il Duomo di Sovana, in una Pieve di Arcidosso ed a San Galgano.

Il lato sinistro dell'architrave è stranamente disadorno, asimmetrico. Riporta unicamente un motivo a zig-zag, il cui elemento è antichissimo, comparendo fin da terracotte dell'età del bronzo e nella cultura villanoviana, ma anche in Messico e tra i Dogon, in Egitto.

A lato dello stipite di sinistra sono incisi tre cerchi. In tutti è presente l'elemento della quaternità. Il primo è il fiore dell'Apocalisse, il secondo è un glifo della Terra, il terzo la Gerusalemme Celeste.  Quando ho visitato il luogo, quest'ultimo simbolo era stato maldestramente coperto da un intervento di consolidamento.

E' interessante considerare che queste incisioni potrebbero aver avuto anche funzione pratica. Era infatti importante conoscere le fasi astrali per la realizzazione dell'opera e potevano essere usati come meridiane per l'orientamento verso la Terrasanta.  Orientarsi nel cammino per Gerusalemme allo stesso modo che nel cammino verso il Divino.

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22 maggio 2009

La casa di Asterione (una casa senza porte)


"E la regina dette alla luce un
figlio che si chiamò Asterione"
Apollodoro, Biblioteca, III, 1

So che mi accusano di superbia, e forse di misantropia, o di pazzia. Tali accuse (che punirò al momento giusto) sono ridicole.
È vero che non esco di casa, ma è anche vero che le porte (il cui numero è infinito) restano aperte giorno e notte agli uomini e agli animali. Entri chi vuole. Non troverà qui lussi donneschi né la splendida pompa dei palazzi, ma la quiete e la solitudine.
E troverà una casa come non ce n'è altre sulla faccia della terra. (Mente chi afferma che in Egitto ce n'è una simile.)
Perfino i miei calunniatori ammettono che nella casa non c'è un solo mobile. Un'altra menzogna ridicola è che io, Asterione, sia un prigioniero. Dovrò ripetere che non c'è una porta chiusa, e aggiungere che non c'è una sola serratura? D'altronde, una volta al calare del sole percorsi le strade; e se prima di notte tornai, fu per il timore che m'infondevano i volti della folla, volti scoloriti e spianati, come una mano aperta. Il sole era già tramontato, ma il pianto accorato d'un bambino e le rozze preghiere del gregge dissero che mi avevano riconosciuto. La gente pregava, fuggiva, si prosternava; alcuni si arrampicavano sullo stilobate del tempio delle Fiaccole, altri ammucchiavano pietre. Qualcuno, credo, cercò rifugio nel mare. Non per nulla mia madre fu una regina; non posso confondermi col volgo, anche se la mia modestia lo vuole.

La verità è che sono unico. Non m'interessa ciò che un uomo può trasmettere ad altri uomini; come il filosofo, penso che nulla può essere comunicato attraverso l'arte della scrittura. Le fastidiose e volgari minuzie non hanno ricetto nel mio spirito, che è atto solo al grande; non ho mai potuto ricordare la differenza che distingue una lettera dall'altra. Un'impazienza generosa non ha consentito che imparassi a leggere. A volte me ne dolgo, perché le notti e i giorni sono lunghi.

Certo, non mi mancano distrazioni. Come il montone che s'avventa, corro pei corridoi di pietra fino a cadere al suolo in preda alla vertigine. Mi acquatto all'ombra di una cisterna e all'angolo d'un corridoio e giuoco a rimpiattino. Ci sono terrazze dalle quali mi lascio cadere, finché resto insanguinato. In qualunque momento posso giocare a fare l'addormentato, con gli occhi chiusi e il respiro pesante (a volte m'addormento davvero; a volte, quando riapro gli occhi, il colore del giorno è cambiato). Ma, fra tanti giuochi, preferisco quello di un altro Asterione. Immagino ch'egli venga a farmi visita e che io gli mostri la casa. Con grandi inchini, gli dico: "Adesso torniamo all'angolo di prima," o: "Adesso sbocchiamo in un altro cortile," o: "Lo dicevo io che ti sarebbe piaciuto il canale dell'acqua," oppure: "Ora ti faccio vedere una cisterna che s'è riempita di sabbia," o anche: "Vedrai come si biforca la cantina." A volte mi sbaglio, e ci mettiamo a ridere entrambi.

Ma non ho soltanto immaginato giuochi; ho anche meditato sulla casa. Tutte le parti della casa si ripetono, qualunque luogo di essa è un altro luogo. Non ci sono una cisterna, un cortile, una fontana, una stalla; sono infinite le stalle, le fontane, i cortili, le cisterne. La casa è grande come il mondo. Tuttavia, a forza di percorrere cortili con una cisterna e polverosi corridoi di pietra grigia, raggiunsi la strada e vidi il tempio delle Fiaccole e il mare. Non compresi, finché una visione notturna mi rivelò che anche i mari e i templi sono infiniti. Tutto esiste molte volte, infinite volte; soltanto due cose al mondo sembrano esistere una sola volta: in alto, l'intricato sole; in basso, Asterione. Forse fui io a creare le stelle e il sole e questa enorme casa, ma non me ne ricordo.

Ogni nove anni entrano nella casa nove uomini, perché io li liberi da ogni male. Odo i loro passi o la loro voce in fondo ai corridoi di pietra e corro lietamente incontro ad essi. La cerimonia dura pochi minuti. Cadono uno dopo l'altro; senza che io mi macchi le mani di sangue. Dove sono caduti restano, e i cadaveri aiutano a distinguere un corridoio dagli altri. Ignoro chi siano, ma so che uno di essi profetizzò, sul punto di morire, che un giorno sarebbe giunto il mio redentore. Da allora la solitudine non mi duole, perché so che il mio redentore vive e un giorno sorgerà dalla polvere. Se il mio udito potesse percepire tutti i rumori del mondo, io sentirei i suoi passi. Mi portasse a un luogo con meno corridoi e meno porte! Come sarà il mio redentore? Sarà forse un toro con volto d'uomo? O sarà come me?

Il sole della mattina brillò sulla spada di bronzo. Non restava più traccia di sangue.
"Lo crederesti, Arianna?" disse Teseo. "Il Minotauro non s'è quasi difeso.

Jorge Luis Borges, L'aleph, Feltrinelli 1952 (... il libro più bello che ho ricevuto in regalo...)


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10 maggio 2009

Porta e catenaccio sappiano...


Nella Mesopotamia del  del I millennio a.C. l'aria era oscurata da potentissimi stormi di demoni, ipostasi dei fenomeni naturali più violenti o degli eventi morbosi che colpivano gli uomini. Perfino gli dei potevano essere attaccati dai demoni. La richiesta di protezione, sotto forma di preghiera, di sacrificio, di rituali sempre più complessi,  divenne  ossessiva, la medicina si trasformò in esorcismo. La maggior parte di tutto quello che si conosce sulle pratiche contro i demoni proviene dalla collezione raccolta da Assurbanipal a Ninive attorno al 630 a.C.: migliaia di tavolette, appartenute alla biblioteca di Ninive, descrivono esorcismi, auspici e pratiche divinatorie. Appartengono allo stesso periodo molte migliaia di amuleti apotropaici da portare al collo o la polso, su di essi è di solito raffigurato il demone da cui ci si vuole proteggere sormontato da sacerdoti in atto rituale, spesso è riportato anche un testo di scongiuro, ad esempio come questo:
"Incantesimo.
 Quello che si è avvicinato alla casa mi fa fuggire dal letto per lo spavento,
 mi strazia, mi fa veder incubi.
 Al dio Bine, portinaio del mondo degli Inferi,
 possano essi designarlo,
 per decreto di Ninurta, principe del mondo degli Inferi.
 Per decreto di Marduk, che risiede nell' Esagila a Babilonia.
 Porta e catenaccio sappiano che io sono sotto la protezione dei due Signori.
 Incantesimo" 

per l'iscrizione dell'amuleto: H.W. Saggs, The Greatness That Was Babylon, 1962)  

Nell'immagine, che ho preso da http://www.arcadia93.org/demonimesop.html,  il combattimento mitologico fra il demone Asag (Ashakku) e il dio Ninurta. 

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15 aprile 2009

A guardia del mandala


Nel "Libro tibetano dei morti", precisamente nel sesto giorno delle visioni delle divinità pacifiche, appaiono i quattro custodi del mandala. Sono divinità protettrici dall’indole semicollerica che sorvegliano l’accesso alle quattro porte del mandala ed alle relative quattro regioni cosmiche.
Le loro sembianze sono umane, il volto è adirato e posseggono il terzo occhio, l’occhio della conoscenza superiore: Vijaya è il custode bianco che sorveglia la porta orientale, unito in polarità tantrica alla sua consorte Vajrankusi: attributi di Vijaya sono una kapala ed una campana, Vajrankusi porta invece un uncino di ferro.
In corrispondenza della porta meridionale compare tra rosse fiamme, in piedi su un fiore di loto, l’adirato Yamantaka, di colore giallo con la sua compagna Vajrapasi: Yamantaka ha nelle mani un laccio e una campana.
La porta occidentale è custodita dalla coppia Hayagriva, il custode rosso, e Vajrasrnkala. Hayagriva ha una testa di cavallo tra i capelli e regge una catena di ferro, o una clava avvinghiata da serpenti e la campana. La coppia verde Amrtakundalin e Vajraghanta, sorveglia la porta settentrionale, armata di vajra a forma di croce e di campana.

Dettagli a parte, il Mandala è per me il più sofisticato sistema a livello simbolico creato dall'uomo per rappresentare la complessità del mondo e dell'universo intero.
C'e dentro il riferimento all'energia nelle quattro forme; c'è la trasformazione dell'energia in materia; ci sono gli elementi chimici; c'è la materia che evolve e diventa vita; c'è la struttura del dna; c'è la mappa del tempo; ci sono le epoche e le stagioni; ci sono le funzioni della mente; c'è come il pensiero diventa storia e come la storia diventa polvere; ci sono i complessi psicologici ed il loro divenire società; c'è lo specchio di ognuno; c'è l'esterno e c'è l'interno; c'è l'espansione dell'universo e la sua contrazione; c'è la creazione e l'entropia; c'è il principio e, contemporaneamente, la fine.

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02 aprile 2009

Etruscan places



“Oltrepassammo il ponte: in fondo al selciato, il muro basaltico del castello ci sbarrava il passo e la cavallina sembrava andare a sbatterci contro il muso. La stradicciola, tuttavia, girava a sinistra, passando sotto l’arco di una porta…Superammo di qualche metro il rudere e scendemmo su uno spiazzo erboso che si affacciava sul burrone.
Era un posto meravigliosamente romantico.
L’antico ponte innalzato per la prima volta dagli etruschi di Vulci in blocchi di tufo nerastro, si leva nell’aria strano e curvo come una bolla. Una quarantina di metri più sotto, in fondo al burrone pieno di rovi, scorre il torrente, mentre il ponte si staglia nel cielo come un solitario arcobaleno nero, con lo spicco di una forma perfetta da lungo tempo dimenticata…
Addossata al ponte da questo lato, c’è la nera costruzione del castello quasi tutto diroccato, con sterpaglie che spuntano fuori dagli spalti e dalla cima della torre…Tutto intorno c’è un senso di vuoto particolare…”

(D.H. Lawrence, Paesi etruschi, Nuova Immagine Editrice, Siena 1985)

Il ponte della Badia di Vulci è uno dei tanti “ponti del Diavolo” toponimo molto comune, come comune è la storia che per ciascuno di essi si racconta: costruttori di ponti o viandanti che per riuscire a superare l’ostacolo posto dal fiume, chiedono aiuto al diavolo. Il Diavolo accetta e chiede tradizionalmente in cambio l’anima della prima creatura che lo attraverserà, restando poi gabbato dall’astuzia dell’antagonista, spesso un santo, che sempre riesce a far traversare il ponte ad un cane, ad un gatto, o addirittura ad una forma di formaggio.
 
Si dice che il ponte di Vulci costò al diavolo tanta fatica da costringerlo ad asciugarsi il sudore con un fazzoletto che è rimasto là, racchiuso in una delle stalattiti pendenti ai lati del ponte stesso.

Le fonti più autorevoli sull’argomento sono Mircea Eliade (I Riti del costruire. Jaca Book, 1990) e Anita Seppilli (Sacralità dell’acqua e sacrilegio dei ponti, Sellerio 1977), ma,  solo per  appassionati di raffinata fantarcheologia rigorosamente made in Italy c'è anche dell'altro...


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21 marzo 2009

Riti di primavera


Credendo erroneamente che l’aspetto rituale fosse in aperto contrasto con ogni categoria connessa alla “modernità” si è, per un lungo periodo, considerato il rito come elemento eminentemente tradizionale e quindi opposto ed estraneo alla configurazione mentale dell’uomo moderno, in una logica dicotomica che opponeva tradizione a modernizzazione. 
Ma non è solo per le intuizioni di grandi studiosi del comportamento umano e della psiche – Freud e Jung in testa –che si è compreso come le società contemporanee, in realtà, abbiano vissuto una revitalizzazione delle pratiche simbolico-rituali causata dal bisogno di identità e senso di appartenenza che proprio la modernizzazione aveva indotto: di fatto i comportamenti simbolico-rituali moderni agiscono sulla personalità e condizionano le dinamiche dei ruoli e degli status sociali. E’ altresì evidente che tale funzione del rito esula totalmente dalla spiccata connotazione sacrale propria del passato, per approdare ad una funzione prevalentemente conservativa, che svela al singolo il significato degli eventi sociali e fornisce al gruppo uno strumento per la conservazione ed il mantenimento dell’identità sociale. Strumento delicato e pericoloso se, oltre alla funzione di mantenimento dell’ identità sociale, viene ulteriormente manipolato per creare modelli di riferimento stereotipati, identità collettive che attraverso “ritus-simbol” basati prevalentemente sui consumi di massa, garantiscono l’immediato riconoscimento dell’appartenenza ad un gruppo sociale.
La strumentalizzazione commerciale e senza scrupoli del rito è, purtroppo, una miniera inesauribile: l’uomo moderno, forse più di quello antico, inventa continuamente, spinto da un principio molto simile a quello che Lévi-Strauss chiamò” principio di sostituzione”, modalità comportamentali funzionali alla facilitazione dei rapporti sociali: non appena un ingrediente del processo manca, lo si sostituisce con un altro simile. La tradizione non è poi così conservativa come la si suppone, ma possiede margini sorprendentemente elastici. La ritualizzazione della vita quotidiana, le regole volte a definire i rapporti individuali sono il fondamento della socialità collettiva e, tanto più questa strumentalizza i comportamenti rituali svuotandoli dei loro significati originari, tanto più quegli stessi significati originari emergono di nuovo, ad un livello minore, cioè quello della socialità primaria, dando origine a nuovi comportamenti rituali, prontamente captati dal sistema capitalistico, che li inserisce immediatamente in sistemi di consumo basati essenzialmente sulla necessità degli individui di essere rappresentati socialmente da quello che si ”possiede” e non più da quello che si “è”.
Antropologi, etnologi, sociologi, psicologi, che conoscono profondamente i dispositivi simbolici basilari della vita sociale, possono portare alla luce molte dimensioni nascoste che sfuggono ai più, ma che sono invece attentamente analizzate da chi non solo riesce a trasformare la naturale tendenza alla ritualità in opportunità commerciale, ma addirittura a trasformare le tradizioni popolari più innocue in saghe violente di identità etniche nuove di zecca.

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17 febbraio 2009

"Timeo ianuas" (licenza carnascialesca)


“Un uomo impazzì per avere troppo profondamente riflettuto sull’azione di aprire e di chiudere una porta.
Egli si mise a paragonare la conclusione delle discussioni umane a quel movimento che, nei due casi, è assolutamente lo stesso, benché diverso ne sia il risultato.”

H. de Balzac, “Teoria dell’andatura”, in H. de Balzac, “Patologia della vita sociale”, Torino, Boringheri, 1992
Balzac pubblicò la Teoria dell’andatura in cinque puntate, fra l’agosto e il settembre del 1833, sulle pagine de “L’Europe Littéraire”.


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11 febbraio 2009

Soglie e simboli negli antichi calendari: Februarius


Il calendario romano di età romulea comprendeva solo 10 mesi: quattro (marzo, aprile, maggio e giugno) avevano nomi propri, mentre gli altri sei avevano nomi derivati dalla loro posizione (quintilis, sextilis, september, ecc.) probabilmente perché aggiunti in un secondo tempo ad una antichissima forma calendariale che computava solo i mesi primaverili, nota agli antichi presso gli Egiziani e gli Arcadi. L’anno romuleo, basato su mesi siderali, coincideva con il ciclo della gravidanza delle donne, che a sua volta coincideva con quello dei bovini e con il ciclo di maturazione del farro. A Numa viene tradizionalmente attribuita una riforma del calendario, che tra l’altro, vide l’inserimento dopo il mese di Dicembre di altri due periodi di circa 30 giorni, Ianuarius e Februarius. Benché siano i primi dieci mesi del calendario ad accogliere le feste più antiche, quelle in collocate nel più “moderno” Februarius rivestono particolare rilievo e costituiscono una preziosa testimonianza sulla necessità del rientro temporaneo dell’elemento caotico-primordiale all’interno dello spazio e del tempo organizzati e definiti.

Febbraio è il mese che realizza i presupposti del rinnovamento annuale, che si compirà con Marzo, primo mese del calendario, contenendo festività segnatamente riferite alla conclusione del ciclo temporale dell’anno. Nei riti annuali finalizzati alla “rigenerazione” compare la sospensione del tempo calendariale, essa corrisponde all’ apertura di un ciclo temporale mitico che, mediante lo svolgimento di riti particolari come l’estinzione dei fuochi, la fuga del re, il ritorno delle anime dei defunti, la licenza erotica, simula la regressione al Caos e consente all’uomo di liberarsi da quanto il tempo dell’anno trascorso ha logorato e di rigenerarsi con nuove energie.

La festa dei Lupercalia del 14 febbraio, dedicata a Fauno, oltre alla sua valenza purificatrice e di concessione della fecondità, possiede aspetti strettamente connessi al rientro momentaneo del caos, del disordine, dell’elemento irrazionale all’interno della città. Il sacerdozio dei Luperci, che esercitavano le loro funzioni per un solo giorno l’anno non ricoprendo nessuna altra funzione religiosa, è estremamente singolare e il carattere selvaggio del rituale è privo di ogni confronto: la nudità, la corsa sfrenata, il consumare gli exta sacrificali semicrudi, l’atto del colpire con fruste fatte con la pelle della capra sacrificata chiunque incontrassero (in modo particolare le donne che si offrivano spontaneamente ai colpi di frusta per propiziare la fecondità), sarebbero interpretabili secondo George Dumezil (G. Dumezil, Le problème de Centaures, Paris, 1929) come rappresentanti di un disordine demoniaco e brigantesco che ritualmente, alla fine di ogni anno, si contrapponeva all’ordine civile sotto l’egida di Fauno-Luperco che, come antenato dei Romani, aveva il suo posto d’onore nel mese in cui si onoravano gli antenati.

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01 febbraio 2009

An angel passes


Come Giano nel mondo romano anche in quello greco un dio dalle molte facce presiede le porte: Hermes. I suoi epiteti sono puledòkos, colui che ronza attorno a le porte, pulaios e thuraios, aggettivi entrambi derivanti da “porta”. Insieme ad Hestia abita, come recita l’inno omerico ad Hestia, “…nelle belle dimore degli uomini che vivono sulla superficie della terra, con sentimenti di mutua amicizia”.
Mentre Hestia è il focolare circolare, il centro attorno al quale la casa si radica nella terra, Hermes è la transitabilità della soglia: “Non c'è niente, in lui, di fisso, di stabile, di permanente, di circoscritto, né di chiuso. Egli rappresenta, nello spazio e nel mondo umano, il movimento, il passaggio, il mutamento di stato, le transizioni, i contatti tra elementi estranei. Nella casa, protegge la soglia, respinge i ladri perché è lui stesso il Ladro [...], per il quale non esistono né serrature, né recinto, né confine”. (J. P. Vernant, ”Hestia-Hermes. Sull’espressione religiosa dello spazio e del movimento presso i Greci”, in Mito e pensiero presso i Greci, pp. 147-200, To, 1978.)
Nel mondo romano a Hermes corrisponde Mercurio legato prevalentemente all’ambito dei commerci, ma considerato anche il padre dei Lari nati in seguito alla violenza su Tacita Muta durante il viaggio verso l’oltretomba.
Hermes, presente alle porte delle città, ai confini degli stati, agli incroci delle vie, deve forse il suo nome agli hermaion, mucchi di pietre che si trovano ai margini delle vie e su cui ogni passante aggiunge una pietra. Hermes, che conosce bene le strade e si orienta nelle tenebre, presiede anche alle tombe, porte del mondo infero: suo è il compito di portare i morti nell’aldilà ed essendo una divinità ubiquitaria cui è concesso circolare liberamente tra i due mondi, è anche addetto a riportarli tra i vivi. Banditore, commerciante, dio errante, padrone delle strade, introduce una dopo l'altra le stagioni ed è responsabile del passaggio dalla veglia al sonno e dal sonno alla veglia. Invisibile, governa e può provocare i cambiamenti di stato, l’imprevedibile, la sorte, sia essa buona o cattiva, e può essere ovunque: al cadere improvviso di una conversazione i Greci dicevano “Passa Hermes”, a significarne l’invisibilità, l’ubiquità, la sfuggevolezza, l’astuzia e, curiosamente, nel mondo anglosassone nello stesso frangente si dice tuttora: “E’ passato un angelo”. Da vero nume del passaggio Hermes è passato di epoca in epoca senza subire la crisi della religione classica che investe, invece, tutte le altre divinità olimpiche, e sopravvive anche con il cristianesimo. Il periodo ellenistico lo vedrà tornare in auge, assimilato a Thot e a Mercurio, e come Ermete Trismegisto, continuerà a sopravvivere attraverso l’alchimia e l’ermetismo almeno fino al XVII secolo. 

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18 gennaio 2009

Il doppio leone


"C’è un dio, o un concetto, egizio chiamato Aker, o anche Akerou. Il dio è rappresentato da due leoni seduti dorso contro dorso. Tra le schiene dei due animali c’è talvolta il disco del sole. Questa figura si chiama Rwti, ovvero il doppio leone, e rappresenta il dio, o la parola, Aker. Aker viene rappresentato come doppio leone (o come doppio cane o come Ieri e Domani) perché nella mitologia egizia quell’immagine simboleggia il momento della resurrezione del dio solare: ieri era morto, domani sarà di nuovo vivo. La mezzanotte, momento in cui il sole è nel punto più basso del suo corso e comincia a risalire, segna il passaggio dalla morte alla vita, dall’ieri al prossimo giorno. Il momento più basso dell’enantiodromia e della resurrezione è appunto Aker, poiché Aker significa “quel momento”.
(…) Già anticamente Aker è una parola che indica non solo il momento, ma anche il luogo e la situazione, la situazione di morte e resurrezione, di ieri e di domani, di resurrezione e rigenerazione del Dio sole. Talvolta Aker non viene rappresentato come il punto più profondo degli Inferi, ma come la porta dell’Aldilà custodita dal doppio leone. Così Aker è la fusione di due idee: è tanto l’entrata nell’Aldilà, il limen, quanto il punto più profondo degli inferi stessi."

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28 dicembre 2008

Storie di porte e di chiavi: la leggenda di Ys.


Racconta una antica leggenda della città bretone di Ys, costruita sotto il livello del mare e protetta da dighe le cui chiuse venivano aperte, di tanto in tanto, per permettere il ricambio e il flusso delle acque. Il re di Ys si chiamava Gradlon ed era padre della bellissima principessa Dahut, che portava sempre, appese al collo, le preziose chiavi delle chiuse. La principessa era una potente maga: grazie alle sue arti magiche aveva reso Ys una città meravigliosa, i cui abitanti erano talmente ricchi da usare solo utensili d'oro e d'argento. Ma come Dahut aveva un cuore arido ed era dedita solo al vizio ed al piacere, così i suoi sudditi, sedotti e corrotti dalla ricchezza e dal lusso, erano cattivi ed ingrati. Tutti si erano dimenticati di Dio, i poveri erano stati cacciati dalla città e l'unica chiesa era stata talmente trascurata da essersi perduta la chiave del suo portone.
Dahut giorno e notte organizzava feste frequentatissime e ricche di stupefacenti attrazioni, ma era perfida e scellerata e quando si innamorava di qualche avvenente frequentatore delle sue feste gli faceva dono di una maschera magica che gli avrebbe permesso di raggiungerla, segretamente, in una torre che si innalzava accanto alle chiuse. Ma il giorno dopo, allorché lo sciagurato avesse tentato di allontanarsi, la maschera prendeva vita e lo strangolava. Un servitore, allora, raccoglieva il cadavere e lo andava a gettare sul fondo di un precipizio che si trova tra Huelgoat e Poullauen.
Una notte, uno straniero entrò nella sala del palazzo di Dahut mentre era in corso una festa. Era accompagnato da un piccolo suonatore che suonò un passe-pied talmente indiavolato e così potente che nessuno riuscì a sottrarsi al desiderio di ballare e Dahut e i suoi amici si misero a danzare come le fiamme di un fuoco. Lo sconosciuto avvicinò la sua mano al collo della principessa che vorticava persa nella danza, si impadronì delle chiavi delle chiuse e fuggì. Intanto San Guénolé si era presentato in visita al re Gradlon, che viveva appartato nel suo castello, per avvisarlo che tutti gli abitanti della sua dissoluta città sarebbero stati presto puniti: "Sire, è necessario che la città sia punita. Andiamocene o anche noi saremo coinvolti in quello che succederà". Il re prese con sé quanto aveva di più caro e prezioso, montò sul suo cavallo nero e seguì il santo. Nel passare davanti alla diga, i due videro lo straniero tramutarsi in Demonio ed usare le chiavi della principessa per aprire tutte le chiuse delle dighe, mentre il mare cominciava a riversarsi in tumultuose cascate sulla città. Mentre il re Gradlon galoppava per le strade inseguito dalle onde rombanti, con le zampe posteriori del cavallo già immerse nell'acqua, la principessa Dahut lo vide e, terrorizzata, urlò perché lui la salvasse. Il re fermò il cavallo e chiamò in proprio aiuto il santo che gli consigliò di abbandonare la figlia, e poiché il re esitava, noncurante dell'acqua che continuava a salire, il santo toccò con il suo pastorale di vescovo la spalla della principessa, che scivolò nel mare e scomparve. Il cavallo riprese la sua corsa e raggiunse lo scoglio di Garrec dove si vede ancora l'orma dei suoi zoccoli. Lì Gradlon si inginocchiò per ringraziare Dio: quando sollevò il viso e si volse verso la sua bella città, non vide che una distesa d'acqua oscura e profonda, sulla cui calma superficie si specchiava la luce delle stelle.

(Evariste-Vital Luminais 1822-1896, Flight of King Gradlon, 1884, Musée des Beaux-Arts, Quimper)

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